Mar Piccolo di Taranto, il mare del paradosso.

Sorvolando dall’alto la città di Taranto, il Mar Piccolo appare come un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito. Non a caso, nonostante il feroce inquinamento ambientale perpetuato per decenni e che continua ancora a gravare sul mare e su tutto il territorio circostante, il piccolo mare interno racchiude ancora un patrimonio naturalistico unico nel suo genere.


 

In principio


Il Mar Piccolo è una laguna costiera che si estende per poco più di 20 km², a nord della città di Taranto. È suddiviso in due seni di forma ellittica, il primo in comunicazione con il Mar Grande attraverso due varchi, il canale navigabile e il canale di Porta Napoli, e il secondo poco più grande e più interno. Nel bacino sfociano brevi corsi d’acqua costeggiati da preziosi ambienti umidi, come il fiume Galeso decantato da Orazio e Marziale, e rifugio di numerose specie di uccelli acquatici.
Da depressioni imbutiformi dei fondali di entrambi i seni, inoltre, sgorgano sorgenti sottomarine di fredda acqua ipogea, chiamate localmente citri, in greco caldaie ribollenti. Le sorgenti oltre ad assumere un ruolo fondamentale nel regolare la temperatura delle acque dell’intero bacino, influenzano anche la salinità, che è di poco inferiore a quella del mare aperto. L’abbondanza di sali di azoto e fosforo apportati dai corsi d’acqua, la bassa profondità e il ridotto idrodinamismo, rappresentano alcune delle peculiarità che rendono il Mar Piccolo un ambiente particolarmente produttivo in grado di sostenere considerevoli masse biologiche, dai microscopici organismi planctonici alla base delle reti alimentari marine, fino ai grandi predatori.
Proprio la pescosità delle sue acque rese il piccolo mare, il cuore della città di Taranto fin dalla leggendaria fondazione ad opera di Taras, figlio di Poseidone, giunto dal mare a cavallo di un delfino. In realtà, la Regina dei Due Mari fu fondata da coloni spartani guidati da Falanto circa 700 anni prima di Cristo. Durante il lento scorrere della storia, Taranto visse splendori e miserie, invasioni, sconfitte, decadenze e riprese, ma è sempre esistito un forte legame tra la città e il suo bacino interno, porto naturale riparato dai forti venti dello scirocco e del libeccio, e preziosa fonte di pesce e frutti di mare. Il Mar Piccolo rappresentò anche la sede di fruttuose attività legate all’estrazione del pigmento della porpora dai murici, e alla filatura del bisso, la cosiddetta lanapinna, prelevato dalla grande pinna nobile e utilizzato per tessere stoffe pregiate.
Dal Medioevo in poi, il Mar Piccolo venne lottizzato in piscarie, aree di pesca ad uso esclusivo del proprietario, distinte l’una dall’altra e concepite alla stessa stregua dei fondi agricoli. In ogni area venivano pescati con un gran numero di attrezzi differenti ideati all’occorrenza, calamari, seppie, gamberetti, cefali, orate, spigole, triglie, anguille, e raccolte molte specie diverse di frutti di mare.

 

Nelle epoche successive, le ricchezze naturali del Mar Piccolo sono state più volte tutelate e valorizzate come nel famoso Libro Rosso dei Principi di Taranto (XVI secolo). I reggenti illuminati già tutelavano le rigogliose praterie di piante marine e già conoscevano il danno prodotto da alcuni attrezzi di pesca e dal veleno del tasso, che proibivano in modo categorico. Anche in seguito, nel XVIII secolo, il Regolamento del Codronchi disciplinò severamente le attività di pesca, indicando per ognuna la gabella corrispondente da pagare per poter aver il diritto di effettuarla. Le tasse variavano anche in relazione al tipo di attrezzo utilizzato e alla specie di pesce pescato.
Con il susseguirsi dei secoli all’affettuosa premura dei Principi di Taranto si è sostituito dapprima lo sfruttamento massiccio ma mal gestito del Mar Piccolo divenuto la sede storica della mitilicoltura e dell’ostricoltura nazionale e, in seguito, il grave oltraggio ambientale perpetuato dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri.




Sugli inquinanti


Il dramma ambientale di Taranto e dei suoi mari, iniziò nel lontano 1889 quando fu inaugurato l’Arsenale Militare costruito sulla sponda meridionale del primo seno del Mar Piccolo, al posto di una parte della necropoli greco-romana e di preziose ville settecentesche. All’Arsenale Militare seguì la costruzione della Stazione Torpedinieri, dell’Idroscalo sul secondo seno, dei Cantieri Navali, della polveriera di Buffoluto, destinando il Mar Piccolo a divenire una sede strategica dell’industria bellica nazionale, senza tenere in nessuna considerazione le grandi ricchezze naturali e il valore vitale del bacino per la città di Taranto. Oltre ad aver completamente stravolto l’assetto costiero del mare interno con moli, banchine, tombamenti e bacini di carenaggio, queste opere scellerate hanno implicato la cementificazione di chilometri e chilometri di sponde con la conseguente totale distruzione del fragile ecosistema mesolitorale, al confine tra la terra e il mare. Ma l’enorme impatto ambientale non si è limitato all’alterazione irreversibile del paesaggio costiero e alla modificazione dei flussi idrodinamici. Alle attività dell’Arsenale Militare e dei Cantieri Navali è imputato in parte il grave inquinamento dei sedimenti marini del primo seno, contaminati da concentrazioni elevatissime di PCB (Poli Cloro Bifenili), ben al di sopra dei limiti di intervento, da metalli pesanti (mercurio, arsenico, cadmio, piombo, rame e zinco) e da altri pericolosi inquinanti come i composti organostannici utilizzati nelle vernici antifouling.

 

La violenza inflitta sui mari di Taranto, sulla città e su tutto il territorio circostante raggiunse l'apice con la costruzione dell’Italsider che sancì l’inizio della catastrofe ambientale. Dal 1965, anno in cui l’industria fu inaugurata, ogni comparto dell’ecosfera, dall’aria all’acqua, dalla terra a tutti gli esseri viventi è stato gradualmente contaminato da una lunga serie di inquinanti cancerogeni, come le temutissime diossine. Anche il Mar Piccolo ha subito direttamente o indirettamente l’impatto prodotto dalla vicina area industriale che negli anni si è sempre più ampliata e ha visto sorgere, tra l’altro, il cementificio e la grande raffineria dell’Eni.
La contaminazione del bacino è avvenuta attraverso la ricaduta degli inquinanti adsorbiti a polveri sottili e precipitati dal cielo (fall out), il dilavamento di suoli contaminati (run off), l’apporto degli inquinanti attraverso i corsi d’acqua. Inoltre, l’Idrovora dell’ILVA sulla sponda nord-occidentale del primo seno, ha stravolto le correnti del Mar Piccolo e ha provocato un aumento della salinità richiamando un’enorme quantità d’acqua salata dal Mar Grande (fino a 4 milioni di metri cubi al giorno!) e di inquinanti provenienti dalla zona portuale e dagli scarichi industriali. Recenti studi effettuati dal Politecnico di Bari, hanno dimostrato che bastano soltanto 15 giorni perché le acque inquinate della zona antistante gli scarichi dell’ILVA giungano nel primo seno, contaminandolo con altre sostanze tossiche, come gli IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici).
L’impatto delle attività industriali sul Mar Piccolo è avvenuto anche in modo indiretto per mezzo dei citri, le sorgenti sottomarine che apportano acque ipogee. Il percolato proveniente da una gigantesca discarica di scarti di lavorazione industriale e di sostanze tossiche, ha col tempo raggiunto e contaminato la falda che alimenta le sorgenti, contribuendo all’inquinamento continuo e generalizzato.


Tutto ciò ha prodotto danni gravissimi alla secolare mitilicoltura tarantina soprattutto nel primo seno del Mar Piccolo, un ambiente così contaminato che i mitili posti in allevamento accumulano sostanze altamente cancerogene come diossine e PCB (Poli Cloro Bifenili) in concentrazioni tali da vietarne il consumo alimentare. Tonnellate e tonnellate di mitili sono stati negli ultimi anni etichettati come rifiuti speciali e smaltiti in inceneritore che con le sue emissioni contribuisce ad avvelenare l’ambiente.
In confronto, gli scarichi civili di ben otto comuni del circondario (e potrebbero anche aumentare!) che sfociano attraverso il Canale d’Aiedda nel secondo seno sembrano un’inezia. Producono, in realtà, un rilevante arricchimento organico della porzione più interna del Mar Piccolo. Il surplus di materia organica combinato ad alte concentrazioni di nitrati e fosfati lisciviati dalle circostanti terre coltivate, innesca soprattutto nei mesi estivi, impressionanti fioriture algali che destabilizzano il delicato sistema marino e provocano nei casi peggiori gravi crisi anossiche caratterizzate da diffuse morie di massa.


Il patrimonio sommerso del Mar Piccolo


Un quadro del genere indurrebbe chiunque a supporre che il Mar Piccolo sia ormai ridotto a un deserto abiotico, un mare privo di ogni forma di vita vegetale o animale. Questo è quello di cui sono convinti molti tarantini che considerano il piccolo mare un posto degradato, altamente inquinato, da evitare. Non sanno però che celato sotto le acque calme del bacino, esiste un tesoro di inestimabile valore naturalistico e dalle caratteristiche uniche.
L’elevata biodiversità del Mar Piccolo, ovvero il numero complessivo di specie diverse che costituiscono la comunità sottomarina, è sicuramente la qualità più sorprendente che cozza fortemente con l’alto grado di inquinamento ambientale. Gli organismi colonizzano sia i substrati naturali (sedimenti sabbiosi e siltosi vicino le coste, fangosi più in profondità), sia i substrati artificiali.

 

Proprio questi ultimi sono stati trasformati dalla Natura in isole colorate, ricche di vita rigogliosa. Caotici assembramenti di invertebrati filtratori avvolgono completamente i pali dei vecchi impianti di mitilicoltura tramutandoli in poderose colonne viventi. Lo spessore dei pali, in genere di 8 cm, viene più che triplicato dagli strati di organismi che si insediano al di sopra. Una volta terminato lo spazio disponibile, gli animali sessili continuano a crescere gli uni sugli altri, e quelli dall’accrescimento più rapido soffocano i più lenti. Lo spazio, infatti, rappresenta l’unico fattore limitante, dato che il cibo non manca. Spugne, policheti sedentari, bivalvi, cirripedi, briozoi, ascidie e gigli di mare si alimentano filtrando di continuo l’acqua del mare e trattenendo all’interno del loro corpo minuscole particelle organiche. E tra i filtratori vivono altrettanti animali, tra cui gasteropodi con e senza conchiglia, granchi, paguri, stelle marine, bavose, pesci ago e cavallucci marini. Tutti questi organismi rendono la comunità che ne deriva estremamente varia, difficile da descrivere in ogni sua parte. Difficili da individuare sono anche le molteplici interazioni tra gli organismi, dalle relazioni trofiche, chi mangia chi, alle simbiosi, alle modalità con cui vengono edificate alcune importanti biocostruzioni che a loro volta incrementano l’eterogeneità dell’ambiente.
Nel mare interno è presente anche un cospicuo contingente di specie non comuni negli altri mari del Mediterraneo, divenute rare in seguito a impatti antropici o considerate tali da sempre, alcune di queste protette dalla legislazione vigente: dalla bavosa dalmatina (Microlipophrys dalmatinus) abbondantemente presente in entrambi i seni al nudibranco Thecacera pennigera, dalle due specie di Ippocampo (Hippocampus guttulatus, H. hippocampus) alla grande spugna Geodia cydonium, dal pesce ago di Rio (Syngnathus abaster) al paguro Paguristes streaensis battezzato nel 1984 dal Dr. Michele Pastore, all’epoca direttore del Talassografico di Taranto.


A dispetto dell’inquinamento, il Mar Piccolo è un mare in cui avviene ancora il processo evolutivo della speciazione, ovvero nascono e si evolvono nuove specie da quelle preesistenti. L’ultima descritta nel 2012 da ricercatori dell’Università di Venezia e di Bari, è una coloratissima ascidia coloniale, Botrylloides pizoni, una nuova componente della ricca comunità sessile che incrosta i pali e gli altri substrati artificiali. Il Mar Piccolo, quindi, non è un mare dove la vita si estingue per il feroce inquinamento ambientale. Qui, anzi, nascono nuovi organismi che fino a poco tempo fa non esistevano. Ciò testimonia ancor più l’importanza di questo bacino, il mare più piccolo d’Italia.

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Chi si immerge per la prima volta nel mare interno tarantino avverte un senso di disorientamento perché oltre alla grande abbondanza e ricchezza di forme di vita, osserva animali strani, mai visti prima. Si tratta delle molte specie aliene giunte nel Mar Piccolo da ogni angolo del pianeta trasportate nelle acque di zavorra o incrostate sugli scafi delle innumerevoli navi che solcano i mari di Taranto, o ancora introdotte con gli animali da allevare in acquacoltura. Ascidie peruviane (Polyandrocarpa zorritensis) ricoprono rapidamente corde e altri manufatti, colorati vermi tropicali (Branchiomma luctuosum) competono per lo spazio con gli spirografi nostrani, spugne calcaree brasiliane (Paraleucilla magna) crescono al posto degli organismi indigeni. E nudibranchi bitorzoluti (Melibe viridis) provenienti dal Mar Rosso, minuscoli mitili asiatici (Arcuatula senhousia), ascidie a pois (Distaplia bermudensis) originarie delle Isole Bermuda. Tutti questi organismi convivono forzatamente con quelli autoctoni, mostrando in alcuni casi carattere invasivo e destando non poche preoccupazioni.

 

Di notevole importanza naturalistica sono le segnalazioni nel Mar Piccolo di grandi animali pelagici, che penetrano nel bacino dal Mar Grande, probabilmente in cerca di cibo. Si tratta della tartaruga Caretta caretta che insegue fin dentro il secondo seno gli sciami di meduse spinte dalle correnti, e dello squalo elefante (Cetorhinus maximus). Gli emozionanti avvistamenti inducono a riflettere sullo splendore del Mar Piccolo, mare tanto oltraggiato dall’uomo quanto premiato dalla Natura.

Rossella Baldacconi
PhD in Scienze Ambientali